Omessa dichiarazione IVA e riporto del credito

La Sesta sezione civile Tributaria della Corte con ordinanza 22902/2014 ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per valutare l’opportunità di devolvere alle Sezioni Unite il problema della detraibilità di eccedenza di IVA, debitamente registrata nelle liquidazioni periodiche, in ipotesi di omissione della dichiarazione annuale relativa al periodo di maturazione di dette eccedenze in applicazione del combinato disposto degli artt. 19,27,28,30 e 55 DPR 633/1972.
E’ bene precisare che di solito nel contenzioso non è oggetto di contestazione la sussistenza del credito e per questa ragione la prima difesa del contribuente si risolve nell’evidenziare che la preclusione del diritto al riconoscimento del credito attiene alla fase amministrativa e non a quella giurisdizionale dell’accertamento del credito e quindi tale diritto deve comunque essere riconosciuto tutte le volte che il contribuente in giudizio ne abbia fornito alla prova.
Il contrasto giurisprudenziale richiamato nell’ordinanza citata attiene alla legittimità del ricorso alla liquidazione automatico da parte dell’A.F.; nel caso in cui l’atto impositivo si sia sostanziato nella liquidazione automatica, la difesa del contribuente eccepisce che la liquidazione automatica è tassativamente circoscritta alle ipotesi contemplate dall’art 54 DPR 633/1972, dovendo la maggior imposta scaturire ictu oculi dalle irregolarità formali della dichiarazione (ex multis Cass. 18/03/2009 n. 6517). Di conseguenza non rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 54 DPR 633/1972 le valutazioni circa il disconoscimento di un credito d’imposta derivante dalla dichiarazione dell’anno precedente che era stato omesso ( Cass. 3/04/2012 n. 5318).
La Corte di Cassazione si è già espressa in senso diametralmente opposto alla posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 34/E con l’ordinanza sopracitata la n. 5318/2012.
A tale proposito la Suprema Corte ha ribadito espressamente che il disconoscimento dei crediti risultanti dalle dichiarazioni omesse può avvenire solo con atto di accertamento e non con una mera comunicazione di irregolarità.
L’ordinanza citata e le numerose sentenze (CTR Lombardia 124/28/2012 – CTR Lombardia 2942/29/14) conformi a detta interpretazione sanciscono inequivocabilmente l’illegittimità della prassi dell’Amministrazione fiscale, stante il fatto che la procedura mediante iscrizione a ruolo e notifica della cartella di pagamento viene attuata fuori dai limiti previsti dalla legge. In presenza di un credito non contestato la procedura di accertamento non può che condurre al riconoscimento del credito stesso.
Da ultimo si rileva che con la circolare 25 giugno 2013 n. 21 l’Agenzia delle Entrate ha attenuato la rigida interpretazione adottata con la circolare n. 34/E del 6 agosto 2012 ;per questo motivo per i provvedimenti adottati prima della circolare del 2013 , può essere ravvisata una disparità di trattamento tra i contribuenti in presenza di una identica disciplina di legge.
Resta comunque il fatto che il contrasto giurisprudenziale persiste con recente trasmissione da parte della Sezione Tributaria della Cassazione al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite proprio al fine di dirimere tale contrasto.

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Quadro RW e raddoppio dei termini ex D.L. 78/2009

In materia di accertamenti relativi a somme detenute all’estero nei c.d. paradisi fiscali, la prassi degli Uffici è quella di invocare il raddoppio dei termini.

Si segnala sin da subito che tale prassi è del tutto illegittima ed ingiustificata in relazione alle annualità precedenti al 2009, perché l’applicazione retroattiva dell’art. 12 del D.L. 78/2009 viola il divieto di irretroattività stabilito in materia di norme tributarie.

Giova ai nostri fini evidenziare sin da subito che i commi 2 bis e 2 ter D. L. n. 78/2009 (relativi al raddoppio dei termini invocato dall’Ufficio) sono stati introdotti con il D.L. n. 194 del 30/12/2009 (entrato in vigore nella medesima data).

Come è noto, il co. 2 bis del DL 78/2009 riguarda il raddoppio dei termini per l’applicazione della presunzione di cui all’art. 12 del suddetto decreto, mentre il co. 2 ter del D.L. 78/2009 concerne l’irrogazione delle sanzioni relative alle violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale di cui all’art 4 del D.L. 167/1990 per le attività detenute nei c.d. paradisi fiscali.

Numerose sono le sentenze di merito favorevoli alla tesi della irretroattività: ex multis CTP Milano 20/05/2014 n. 4753/12/14 , CTR Lombardia 11/07/2014 n. 3878/20/14, CTR Lombardia 26/24/2013 – CTP sez IV Lucca sentenza 18/07/2012 n. 103 – CTR Lazio sez. XIX 4 giugno 2014 n. 3656 – CTR Lombardia 382/29/14.

Le pronunce richiamate pervengono alla conclusione che l’applicabilità retroattiva della norma di cui all’art. 12 D.L. 78/2009 è vietata dall’art. 11 co. 1 delle disposizioni sulla legge in generale (preleggi) e dall’art. 3 co. 1 della L. 27/07/2000 n. 212 (Statuto del contribuente).

Coglie nel segno la motivazione della sentenza della CTR Lombardia n. 3878/20/14 quando afferma che “è ben vero che le norme sopra richiamate (cfr art 11 co. 1 disp.preleggi – art 3 co. 1 L.212/2000) hanno forza di legge ordinaria e quindi sono suscettibili di venire “contraddette” da successive norme di pari grado nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento giuridico (quale è per l’appunto nel caso di specie il D.L. 78/2009) ; senonchè il principio di irretroattività della legge in generale e della legge tributaria in particolare per essere superato richiede secondo le regole in materia di successione nel tempo, una espressa previsione da parte della lex posterior e tale espressa previsione nell’art 12 del D.L. 78/2009 non c’è; ne discende che l’applicabilità retroattiva di quest’ultima norma deve essere esclusa”.

A sostegno della posizione assunta dalla sentenza richiamata si evidenzia che non è presente nel D.L. 78/2009 una disposizione analoga a quella dell’art 37 co. 26 del D.P.R. 223/2006 che, in tema di raddoppio dei termini da reato, ha previsto espressamente che la proroga si applica alle annualità ancora “aperte” alla data di entrata in vigore della legge; nel caso di specie si ribadisce il D.L. 78/2009 nulla dice in merito alla decorrenza della norma.

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SOCIETA’ ESTINTE , LEGITTIMAZIONE IN GIUDIZIO ED IRRETROATTIVITA’ DEL D.LGS. N. 175/2014

Il tema della cancellazione delle società continua a porre tutta una serie di problemi che non appaiono superati anche dopo le sentenze del marzo 2013 (nn. 6070,6071,6072) delle Sezioni Unite della Suprema Corte, sentenze che hanno confermato i principi fissati dalla sentenza 4062/2010.

In particolare un punto fermo è stato posto, e cioè che la cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Per questo motivo ha generato non poco sconcerto constatare nella pratica professionale come gli Uffici abbiano insistito nel notificare gli accertamenti a società cancellate anzichè procedere direttamente nei confronti dei soci responsabili, nei limiti dei beni ricevuti.

Nella vicenda seguita dallo scrivente, l’avviso di accertamento era stato emesso e notificato nei confronti della società ormai inesistente, in persona di colui che ne era il legale rappresentante e non a quest’ultimo personalmente né come socio né come liquidatore; la CTR di Milano ha confermato la sentenza della CTP di annullamento dell’avviso di accertamento

Successivamente, è intervenuto il D. Lgs. 175/2014 art 28 comma 4 secondo cui “Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione,accertamento,contenzioso e riscossione dei tributi e contributi,sanzioni ed interessi,l’estinzione della società di cui all’art 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese”; trattandosi di norma procedurale l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che la stessa fosse applicabile anche per le attività di controllo riferite a società che hanno già chiesto la cancellazione dal registro delle imprese o già cancellate dallo stesso registro prima della data di entrata in vigore del presente decreto.

Pertanto, secondo l’interpretazione fornita dall’Amministrazione a partire dal 13 dicembre 2014, data di entrata in vigore del decreto, l’avviso di accertamento contenente la rettifica della dichiarazione della società cancellata dal registro delle imprese deve essere emesso nei confronti della società cancellata e notificata alla stessa presso la sede dell’ultimo domicilio fiscale in quanto a tal fine l’effetto estinzione viene differito e si produrrà solo cinque anni dopo la richiesta di cancellazione

L’interpretazione sopra descritta è stata radicalmente smentita dalla Cassazione con la sentenza n. 6743/2015 depositata il 2 aprile 2015; secondo Giudici della Cassazione la possibilità di accertare le società estinte entro cinque anni dalla richiesta di cancellazione non può avere effetto retroattivo ma si applica a partire dalla data di entrate in vigore del D. Lgs. 175/2014, ossia dal 13/12/2014.

La sentenza citata con riguardo all’ambito temporale di efficacia della norma evidenzia che l’art 28 co. 4 “intende limitare (per il periodo da essa previsto) gli effetti della estinzione societaria previsti dal codice civile, mantenendo per la società una capacità e soggettività (anche processuali) altrimenti inesistenti al <solo> fine di garantire (per il medesimo periodo) l’efficacia dell’attività (sostanziale e processuale) degli enti legittimati a richiedere tributi o contributi con sanzioni e interessi;” l’obiettivo della norma viene individuato nella relazione illustrativa al d.lgs in quello di “evitare che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate”.

La norma opera quindi su un piano sostanziale e non “procedurale” in quanto non si risolve in una diversa regolamentazione dei termini processuali e dei tempi e delle procedure di accertamento o di riscossione.

Sulla interpretazione della circolare 31/E/2014 si sono espresse già le Commissioni di merito; giova richiamare la sentenza 5/02/2015 della CTP Reggio Emilia e la CTR Lombardia 3837/2014; entrambe si muovono nella direzione di non ritenere ammissibile la retroattività dei controlli.

E’ di intuitiva evidenza che rimangono aperte numerose questioni; le decisioni delle singole commissioni appaiano disomogenee e poco convincenti in alcuni casi. Si potrebbe anche porre un profilo di illegittimità costituzionale del decreto semplificazioni laddove viene a determinarsi una irragionevole disparità di trattamento tra gli “enti creditori” previsti dal D. Lgs. citato e tutti gli altri creditori sociali. E ancora potrà emettersi e notificarsi un avviso di accertamento ad una società estinta dopo il 13/12/2014 oppure tale avviso va considerato nullo perché nessun atto impositivo può essere legittimamente emesso nei confronti di una società cancellata? Resta da capire per quale motivo non sia stato accolta la posizione di un noto autore, secondo cui “saltare il simulacro della società estinta agevola, anziché ostacolare, l’attività del recupero del credito tributario nei confronti dei soci e dei liquidatori(link articolo). Ma tant’è; il caos continua lasciando spazio a numerose argomentazioni difensive.

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IMPOSTA DI REGISTRO, PLUSVALENZA E TUTELA DEL VENDITORE

Come è noto ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro occorre fare riferimento al valore di mercato del bene mentre ai fini della plusvalenza assume rilievo il corrispettivo incassato.

Infatti ai sensi dell’art 51 e 52 DPR n.131/86 la base imponibile è il valore venale in commercio mentre ex art 67 e 68 DPR n.917/86 la base imponibile è la plusvalenza scaturita tra il prezzo di acquisto ed il prezzo percepito nella vendita.

Il concetto di valore è quindi del tutto estraneo alla nozione di plusvalenza; corrispettivo incassato e valore possono certo coincidere essendo del tutto ovvio che nessuno di regola aliena un bene per un corrispettivo inferiore al valore di mercato (da qui la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato).

Spesso gli Uffici individuano il valore di mercato (ricordo che è onere dell’Agenzia dimostrare il valore di mercato) con il valore accertato ai fini dell’imposta di registro definito in sede di adesione da parte dell’acquirente e ciò può comportare un grave pregiudizio per il venditore.

L’importo definito in seguito all’adesione della parte acquirente costituisce infatti, secondo la prospettazione dell’Ufficio, una presunzione grave, precisa e concordante di un maggior corrispettivo percepito dalla parte venditrice rispetto a quello dichiarato nell’atto di compravendita e nella prassi ,estinta l’obbligazione ai fini dell’imposta di registro, l’Ufficio procede nei confronti del venditore con avviso di accertamento a riprendere a tassazione ai fini Irpef la plusvalenza derivante dalla compravendita, comminando altresì la sanzione amministrativa per infedele dichiarazione.

Come può difendersi il venditore? Occorre premettere che nel campo dell’imposta di registro relativa agli atti di compravendita di immobili, l’imposta di registro è a carico della parte acquirente e per questo motivo parte venditrice è sostanzialmente portata a disinteressarsi degli eventi post vendita e che di solito non presta alcuna attenzione all’avviso di accertamento emesso ai fini dell’imposta di registro, essendo sua unica preoccupazione quella di essere tutelata in ordine alla solvibilità dell’acquirente a fronte della suddetta tipologia di accertamento.

Come abbiamo visto sopra, per l’Ufficio la definizione dell’acquirente costituisce un elemento da cui partire per effettuare un accertamento nei confronti del venditore; per questo motivo è opportuno che il venditore partecipi alla procedura dell’accertamento con adesione manifestando già in quella sede la propria contrarietà alla definizione ed in particolare fornendo tutti gli elementi di prova contraria.

E bene evidenziare che sono numerose le pronuncie delle Commissioni di merito,che pur ammettendo che dal valore possa risalirsi al prezzo, osservano come tale presunzione non può effettuarsi in modo automatico, specie nel caso di adesione dell’acquirente all’accertamento. In altre parole il valore accertato in adesione dalla parte acquirente non ha di per sé alcuna valenza di un incasso “in nero” di corrispettivo. Al riguardo la Suprema Corte di cassazione con sentenza n.23001/2012 ha affermato”che il corrispettivo sulla cui base calcolare l’imponibile ai fini dell’imposta dei redditi sulle plusvalenze non si identifica con l’imponibile ai fini dell’imposta di registro, fermo restando che quest’ultimo può costituire un elemento presuntivo dal quale l’A.F. può legittimamente risalire all’accertamento del primo, salva la prova contraria offerta al riguardo dal contribuente”. Resta il fatto che il comportamento dell’acquirente – che per motivi del tutto personali decide di non impugnare l’avviso ai fini dell’imposta di registro ovvero definisce lo stesso con adesione – ha degli effetti pregiudizievoli sulla posizione giuridica del venditore e proprio per questo motivo appare utile che quest’ultimo “anticipi” le proprie difese già in nel contenzioso in materia di imposta di registro.

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L’UTILIZZAZIONE DELL’AVVISO DI ACCERTAMENTO TRIBUTARIO NEL PROCEDIMENTO PENALE

Si segnala una sentenza del Tribunale Penale di Milano Sez. III (n. 8366/14) che ha affrontato la questione dei rapporti tra processo tributario e processo penale.
Nel caso di specie la contestazione del reato di omessa dichiarazione ex art 5 D.Lgvo n. 74/2000 trovava fondamento nella determinazione del reddito imponibile a mezzo del metodo induttivo disposto ai sensi degli art 41 DPR 600/73 e 55 DPR 633/72.( caso di “evasore totale”).
In proposito va rammentato che la Suprema Corte con sentenza n. 3995/2009 ha stabilito che anche in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’A.F. deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti tanto che, qualora per alcuni proventi non sia possibile accertare i costi, questi possono essere determinati induttivamente. Diversamente si assoggetterebbe ad imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo anziché quello netto e ciò in contrasto con il parametro costituzionale della capacità contributiva di cui all’art 53 Cost.
Nel caso di specie l’avviso di accertamento – peraltro non impugnato e quindi ormai definitivo – non ha tenuto conto delle componenti negative del reddito, comunque emerse in sede di accertamento, e ciò nonostante la Procura ha fatto proprie le conclusioni alle quali era pervenuta l’A.F.
Il Giudice penale, invece, ha evidenziato come per imposta evasa deve intendersi l’imposta dovuta da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili e a fronte dell’esistenza di costi effettivamente sostenuti di cui non è stato dato conto o comunque induttivamente determinabili, è pervenuto alla conclusione che non sia stata raggiunta la prova del superamento della soglia di punibilità prevista dall’art 5 D.lvo 74/2000, prosciogliendo così l’imputato dal reato ascrittogli con la formula “perché il fatto non sussiste”.

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IMPOSTA SUI REDDITI FONDIARI E CONTRATTI DI LOCAZIONE AD USO COMMERCIALE RISOLTI A SEGUITO DI SFRATTO PER MOROSITA’- SENTENZA DELLA CTP MILANO 2863/1/2015

La sentenza della Commissione Provinciale di Milano affronta il tema dei redditi di locazione non percepiti in relazione ai contratti di locazione per uso commerciale.
Come è noto l’orientamento della A.F. è quello, in base all’art 26 T.U.I.R, di consentire al contribuente di non dichiarare i redditi di locazione effettivamente non percepiti solo in relazione ai contratti locazione ad uso abitativo, escludendo pertanto i contratti di locazione ad uso commerciale. L’interpretazione della Agenzia delle Entrate trova fondamento nel citato art 26 ma in realtà tale interpretazione travisa completamente la portata della norma.
Nel caso di specie il contratto era stato dichiarato risolto con una pronuncia di convalida dello sfratto e per questo motivo – ha sostenuto il contribuente – era venuto meno l’obbligo di dichiarare i canoni di locazione non percepiti anche se il fabbricato era ad uso commerciale.
Assume rilievo ai nostri fini il terzo periodo della norma di cui all’art 26 T.U.I.R. laddove il legislatore torna a parlare dei contratti di locazione in generale, senza distinguere tra quelli ad uso abitativo e quelli ad uso commerciale. La disposizione stabilisce che il provvedimento di convalida dello sfratto per morosità dà titolo al contribuente per ottenere un credito corrispondente all’imposta versata sui canoni non effettivamente percepiti e, nel caso di specie, la Commissione evidenzia come non avrebbe avuto senso dichiarare e pagare una imposta già estinta per compensazione del credito sorto in capo al contribuente per effetto della convalida di sfratto per morosità.
In definitiva, lo sfratto per morosità fa venir meno l’obbligo di dichiarare i canoni di locazione non percepiti anche se il fabbricato è a uso commerciale; ciò trova conferma nella giurisprudenza recente delle Commissioni tributarie (CTP Reggio Emilia 422/02/2014, CTP Lombardia sez. Bergamo 516/02/2014- CTP Pavia 128/01/2013).

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