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“Prima casa”: si alla confisca in caso di reati tributari

L’art. 76 del D.P.R. n. 602/1973 rubricato “Espropriazione immobiliare” dispone  alla lett. a) che “l’agente della riscossione non da’ corso all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del debitore, con esclusione delle abitazioni di lusso aventi le caratteristiche individuate dal D.M. 2/08/1969, è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente”. Come è noto, Il D.L. n. 69/2013 conv. dalla L. n.98/2013  è intervenuto in materia prevedendo il divieto di pignoramento della c.d. prima casa da parte dell’agente della Riscossione in presenza di debiti tributari. In sintesi, quindi l’ente non può pignorare l’immobile del contribuente a condizione che questo sia: 1)l’unico immobile di proprietà del contribuente 2)non appartenga alla categoria dei beni di lusso 3)il luogo dove il il contribuente è residente.  Detto per inciso resta ovviamente la possibilità  per il fisco di procedere all’iscrizione di ipoteca sul bene immobile in questione per crediti superiore ad euro 20.000.

Che cosa succede invece se il contribuente viene condannato per reati tributari ? Il “principio dell’impignorabilità dell’immobile costituente  prima casa del contribuente,” è ancora valido oppure la prima casa può essere sottoposta dapprima a sequestro preventivo e successivamente alla confisca?

La sentenza n. 45707/2019 della Suprema Corte sez. III è intervenuta sulla questione pervenendo alla conclusione che la confisca non può trovare alcun ostacolo nella previsione dell’art. 76 cit. e  che le limitazioni imposte dal D.L. 69/2013 riguardano il solo agente della riscossione e  sono limitate a specifiche ipotesi e condizioni ed infine, sottolinea la Corte, le limitazioni in questione non svolgono alcun effetto sulla misura cautelare reale imposta nel processo penale  e ciò in considerazione del fatto che la misura cautelare  ha una finalità sanzionatoria.

Il caso. Due coniugi , indagati per il reato di utilizzazione di fatture false (art. 2 D.lgs 74/200)  nonché di sottrazione fraudolenta delle imposte (art.11 D.lgs cit) proponevano ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del GIP del Tribunale di rigetto della richiesta di dissequestro dell’immobile di residenza degli imputati, sequestrato ai sensi dell’art.321 e 322 ter c.p.p. La difesa degli imputati sosteneva che l’alienazione di un bene immobile avente le caratteristiche delineate dall’art.76 cit. ( cd prima casa) non potesse costituire violazione dell’art. 11 D. lgs 74/2000 e ciò in ragione del fatto che si trattava di un bene non sottoponibile ad azione esecutiva. La difesa degli imputati sosteneva altresì che l’immobile, acquistato  prima dei fatti contestati,  non potesse costituire il prezzo o il profitto del reato di cui all’art. 2 cit. e quindi non sarebbe confiscabile per equivalente.

Gli argomenti in questione non hanno trovato accoglimento; i giudici della Suprema Corte hanno infatti disatteso i rilievi difensivi, affermando  che il sequestro preventivo – finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all’imposta evasa – può essere applicato anche ai beni acquistati in epoca antecedente all’entrata in vigore dell’art. 1 comma 43 della L.244 del 2007 (legge che ha esteso tale misura ai reati tributari), in quanto il principio di irretroattività attiene solo al momento di commissione della condotta , e non anche al tempo di acquisizione dei beni oggetto del provvedimento (cfr Cass. Pen sez. 5 del 28/05/2014).

Tirando le fila del discorso, l’art. 76 del D.P.R. 602/1973 non fissa un principio generale di impignorabilità perché si riferisce solo alle espropriazioni da parte del fisco per i debiti tributari; a ciò si aggiunga che la norma in questione non trova applicazione nella confisca penale-sia essa diretta o per equivalente- perché l’oggetto della confisca è il profitto del reato e non il debito verso il fisco.

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L’UTILIZZAZIONE DELL’AVVISO DI ACCERTAMENTO TRIBUTARIO NEL PROCEDIMENTO PENALE

Si segnala una sentenza del Tribunale Penale di Milano Sez. III (n. 8366/14) che ha affrontato la questione dei rapporti tra processo tributario e processo penale.
Nel caso di specie la contestazione del reato di omessa dichiarazione ex art 5 D.Lgvo n. 74/2000 trovava fondamento nella determinazione del reddito imponibile a mezzo del metodo induttivo disposto ai sensi degli art 41 DPR 600/73 e 55 DPR 633/72.( caso di “evasore totale”).
In proposito va rammentato che la Suprema Corte con sentenza n. 3995/2009 ha stabilito che anche in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’A.F. deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti tanto che, qualora per alcuni proventi non sia possibile accertare i costi, questi possono essere determinati induttivamente. Diversamente si assoggetterebbe ad imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo anziché quello netto e ciò in contrasto con il parametro costituzionale della capacità contributiva di cui all’art 53 Cost.
Nel caso di specie l’avviso di accertamento – peraltro non impugnato e quindi ormai definitivo – non ha tenuto conto delle componenti negative del reddito, comunque emerse in sede di accertamento, e ciò nonostante la Procura ha fatto proprie le conclusioni alle quali era pervenuta l’A.F.
Il Giudice penale, invece, ha evidenziato come per imposta evasa deve intendersi l’imposta dovuta da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili e a fronte dell’esistenza di costi effettivamente sostenuti di cui non è stato dato conto o comunque induttivamente determinabili, è pervenuto alla conclusione che non sia stata raggiunta la prova del superamento della soglia di punibilità prevista dall’art 5 D.lvo 74/2000, prosciogliendo così l’imputato dal reato ascrittogli con la formula “perché il fatto non sussiste”.

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