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CONTRADDITTORIO ED INERZIA DEL CONTRIBUENTE IN TEMA DI STUDI DI SETTORE

La Suprema Corte sez. 6 con ordinanza n. 9898/2017 ha accolto il ricorso dell’Ufficio, valorizzando la circostanza che nel caso di specie il contribuente aveva omessa di partecipare al contraddittorio (regolarmente attivato) e si era altresì astenuto da qualsivoglia allegazione.
Al comportamento sopra descritto consegue, secondo la Corte, che l’Ufficio (diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito) non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata essendo così sufficiente per fondare la pretesa tributaria l’accertato scostamento del reddito rispetto agli studi di settore.
Il contraddittorio deve essere obbligatoriamente attivato, pena la nullità del procedimento; tuttavia in caso di inerzia del contribuente l’avviso di accertamento è da considerarsi legittimo e la sua pretesa fondata anche se basati solo sul riscontrato scostamento dello studio di settore.
In definitiva il contribuente che non partecipa al contraddittorio preprocessuale non assolve l’onere controprobatorio rispetto al contestato scostamento. Conseguentemente non può dolersi del fatto che l’Ufficio non indichi ulteriori dati che consentano di adattare quelli astratti degli studi alla realtà del singolo contribuente. (Cfr ex multis Cass. Sez.V 17646/2014).

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Un contrasto giurisprudenziale sui versamenti bancari dei lavoratori autonomi

In tema di versamenti effettuati dai lavoratori autonomi sui propri conti correnti resta invariata la presunzione legale posta dall’art. 32 DPR 600/1973 a favore dell’Amministrazione Finanziaria; è questa la conclusione cui perviene una recente sentenza della Corte di Cassazione sez. V Tributaria ( n.16697/16 depositata il 9/08/2016).
La suddetta pronuncia richiama la sentenza 24 settembre 2014 n. 228 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 32 comma 1 n. 2 secondo periodo in relazione agli artt. 3 e 53 Cost, nella parte in cui ha esteso ai lavoratori autonomi l’ambito di operatività delle presunzione in base alla quale le somme prelevate dal conto corrente costituiscono compensi assoggettabili a tassazione, se non sono annotate nelle scritture contabili e se non sono indicati i soggetti beneficiari dei pagamenti.
E’ stato ritenuto del tutto arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito professionale e che questo sia a sua volta produttivo di reddito.
E’ appena il caso di rilevare che la suddetta presunzione (prelievi non documentati=costi in nero / costi in nero=compensi non dichiarati) era già stata denunciata in dottrina tributaria come del tutto incomprensibile ed anacronistica.
In successive sentenze la Cassazione si è spinta oltre pervenendo alla conclusione che la presunzione legale delle indagini bancarie è venuta meno anche in relazione ai versamenti. Ex multis la Cass. n. 23041 del 2015 ha infatti affermato che a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale “non è più proponibile l’equiparazione logica tra attività d’impresa e attività professionale, fatta ai fini della presunzione posta dall’art. 32 cosicchè è venuto definitivamente meno la presunzione di imputazione sia dei prelevamenti sia dei versamenti operati sui conti correnti bancari ai ricavi conseguiti nella propria attività professionale dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale che la citata disposizione poneva e ciò con spostamento dell’onere probatorio a carico dell’Amministrazione Finanziaria.
La sentenza Cass. Sez. V. n. 16697/16 si discosta da questo orientamento perchè con riferimento ai versamenti ritiene ancora operante la presunzione legale posta dalla predetta disposizione a favore dell’Erario che data la fonte legale non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art 2729 c.c. per le presunzioni semplici superabile da prova contraria fornita dal contribuente, “il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo a tal fine una prova non generica ma analitica con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili”(cfr Cass. n.9721/15- n.13470/15)
Tirando le fila del discorso si può pervenire alla conclusione che non vi sono dubbi sulla illegittimità dell’equazione prelevamento=compenso e conseguentemente l’avviso di accertamento andrà annullato nella parte in cui si riferisce ai prelevamenti di somme.
Per i versamenti non giustificati, invece, la presunzione legale pare alla luce della sentenza citata non venuta meno, registrandosi in ogni caso un contrasto giurisprudenziale che non ha ancora trovato soluzione.

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LA SENTENZA N. 17757/2016 DELLE SEZIONI UNITE DIRIME I CONTRASTI IN TEMA DI OMESSA DICHIARAZIONE E RIPORTO DEL CREDITO

La complessità e l’incertezza delle questioni giuridiche hanno richiesto l’intervento nomofilattico delle sezioni unite e la sentenza n. 17757 (depositata in data 08/09/2016 – relatore Dr. Ettore Cirillo) ricostruisce puntualmente l’evolversi del quadro normativo, giurisprudenziale ed amministrativo di riferimento e tirando le fila del discorso perviene alla formulazione del seguente principio di diritto: “ la neutralità dell’imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale, l’eccedenza d’imposta –risultante da dichiarazioni periodiche regolari versamenti per un anno e dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno (art. 19 c. 1 DPR 633/72) a quello in cui il diritto è sorto- sia riconosciuta dal giudice tributario se siano stati rispettati dal contribuenti tutti i requisiti sostanziali per la detrazione; pertanto, in tal caso, il diritto di detrazione non può essere negato dal giudice d’impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato, laddove, pur non avendo il contribuente presentato la dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, sia dimostrato in modo concreto- ovvero non controverso- che si tratti di acquisti fatti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati a IVA e finalizzati a operazioni imponibili”.
In altre parole se il credito emerge dai registri IVA e dalle liquidazione periodiche a nulla rileva l’aspetto formale della mancata dichiarazione, siccome la sostanza deve prevalere sulla forma e pertanto l’Amministrazione Finanziaria non può pretendere la restituzione di somme per ragioni di pura forma senza addurre rilievi sulla loro effettiva spettanza.
La sentenza delle Sezioni Unite sottolinea come il meccanismo della neutralità dell’IVA e della deducibilità delle eccedenze d’imposta derivi dal diritto dell’UE nell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia e consequenzialmente si allinea sulla posizione ormai consolidata di quest’ultima(caso Idexx) che già si è espressa nel ritenere come il principio di neutralità dell’IVA esiga che la detrazione dell’imposta a monte sia accordata se gli obblighi sostanziali sono stati soddisfatti anche se taluni obblighi formali sono stati omessi dai soggetti passivi.
In definitiva, la sentenza delle Sezioni Unite sancisce inequivocabilmente l’illegittimità della prassi dell’Amministrazione fiscale (cfr. circolare n. 34/E del 6 agosto 2012 secondo cui l’omessa dichiarazione non prevedeva il riporto del credito), orientamento successivamente attenuato con la circolare 21/E del 25 giugno del 2013 che ha consentito al contribuente di dimostrare in sede amministrativa la spettanza del credito, restando in ogni caso dovute le sanzioni.

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Quadro RW e raddoppio dei termini ex D.L. 78/2009

In materia di accertamenti relativi a somme detenute all’estero nei c.d. paradisi fiscali, la prassi degli Uffici è quella di invocare il raddoppio dei termini.

Si segnala sin da subito che tale prassi è del tutto illegittima ed ingiustificata in relazione alle annualità precedenti al 2009, perché l’applicazione retroattiva dell’art. 12 del D.L. 78/2009 viola il divieto di irretroattività stabilito in materia di norme tributarie.

Giova ai nostri fini evidenziare sin da subito che i commi 2 bis e 2 ter D. L. n. 78/2009 (relativi al raddoppio dei termini invocato dall’Ufficio) sono stati introdotti con il D.L. n. 194 del 30/12/2009 (entrato in vigore nella medesima data).

Come è noto, il co. 2 bis del DL 78/2009 riguarda il raddoppio dei termini per l’applicazione della presunzione di cui all’art. 12 del suddetto decreto, mentre il co. 2 ter del D.L. 78/2009 concerne l’irrogazione delle sanzioni relative alle violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale di cui all’art 4 del D.L. 167/1990 per le attività detenute nei c.d. paradisi fiscali.

Numerose sono le sentenze di merito favorevoli alla tesi della irretroattività: ex multis CTP Milano 20/05/2014 n. 4753/12/14 , CTR Lombardia 11/07/2014 n. 3878/20/14, CTR Lombardia 26/24/2013 – CTP sez IV Lucca sentenza 18/07/2012 n. 103 – CTR Lazio sez. XIX 4 giugno 2014 n. 3656 – CTR Lombardia 382/29/14.

Le pronunce richiamate pervengono alla conclusione che l’applicabilità retroattiva della norma di cui all’art. 12 D.L. 78/2009 è vietata dall’art. 11 co. 1 delle disposizioni sulla legge in generale (preleggi) e dall’art. 3 co. 1 della L. 27/07/2000 n. 212 (Statuto del contribuente).

Coglie nel segno la motivazione della sentenza della CTR Lombardia n. 3878/20/14 quando afferma che “è ben vero che le norme sopra richiamate (cfr art 11 co. 1 disp.preleggi – art 3 co. 1 L.212/2000) hanno forza di legge ordinaria e quindi sono suscettibili di venire “contraddette” da successive norme di pari grado nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento giuridico (quale è per l’appunto nel caso di specie il D.L. 78/2009) ; senonchè il principio di irretroattività della legge in generale e della legge tributaria in particolare per essere superato richiede secondo le regole in materia di successione nel tempo, una espressa previsione da parte della lex posterior e tale espressa previsione nell’art 12 del D.L. 78/2009 non c’è; ne discende che l’applicabilità retroattiva di quest’ultima norma deve essere esclusa”.

A sostegno della posizione assunta dalla sentenza richiamata si evidenzia che non è presente nel D.L. 78/2009 una disposizione analoga a quella dell’art 37 co. 26 del D.P.R. 223/2006 che, in tema di raddoppio dei termini da reato, ha previsto espressamente che la proroga si applica alle annualità ancora “aperte” alla data di entrata in vigore della legge; nel caso di specie si ribadisce il D.L. 78/2009 nulla dice in merito alla decorrenza della norma.

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SOCIETA’ ESTINTE , LEGITTIMAZIONE IN GIUDIZIO ED IRRETROATTIVITA’ DEL D.LGS. N. 175/2014

Il tema della cancellazione delle società continua a porre tutta una serie di problemi che non appaiono superati anche dopo le sentenze del marzo 2013 (nn. 6070,6071,6072) delle Sezioni Unite della Suprema Corte, sentenze che hanno confermato i principi fissati dalla sentenza 4062/2010.

In particolare un punto fermo è stato posto, e cioè che la cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Per questo motivo ha generato non poco sconcerto constatare nella pratica professionale come gli Uffici abbiano insistito nel notificare gli accertamenti a società cancellate anzichè procedere direttamente nei confronti dei soci responsabili, nei limiti dei beni ricevuti.

Nella vicenda seguita dallo scrivente, l’avviso di accertamento era stato emesso e notificato nei confronti della società ormai inesistente, in persona di colui che ne era il legale rappresentante e non a quest’ultimo personalmente né come socio né come liquidatore; la CTR di Milano ha confermato la sentenza della CTP di annullamento dell’avviso di accertamento

Successivamente, è intervenuto il D. Lgs. 175/2014 art 28 comma 4 secondo cui “Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione,accertamento,contenzioso e riscossione dei tributi e contributi,sanzioni ed interessi,l’estinzione della società di cui all’art 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese”; trattandosi di norma procedurale l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che la stessa fosse applicabile anche per le attività di controllo riferite a società che hanno già chiesto la cancellazione dal registro delle imprese o già cancellate dallo stesso registro prima della data di entrata in vigore del presente decreto.

Pertanto, secondo l’interpretazione fornita dall’Amministrazione a partire dal 13 dicembre 2014, data di entrata in vigore del decreto, l’avviso di accertamento contenente la rettifica della dichiarazione della società cancellata dal registro delle imprese deve essere emesso nei confronti della società cancellata e notificata alla stessa presso la sede dell’ultimo domicilio fiscale in quanto a tal fine l’effetto estinzione viene differito e si produrrà solo cinque anni dopo la richiesta di cancellazione

L’interpretazione sopra descritta è stata radicalmente smentita dalla Cassazione con la sentenza n. 6743/2015 depositata il 2 aprile 2015; secondo Giudici della Cassazione la possibilità di accertare le società estinte entro cinque anni dalla richiesta di cancellazione non può avere effetto retroattivo ma si applica a partire dalla data di entrate in vigore del D. Lgs. 175/2014, ossia dal 13/12/2014.

La sentenza citata con riguardo all’ambito temporale di efficacia della norma evidenzia che l’art 28 co. 4 “intende limitare (per il periodo da essa previsto) gli effetti della estinzione societaria previsti dal codice civile, mantenendo per la società una capacità e soggettività (anche processuali) altrimenti inesistenti al <solo> fine di garantire (per il medesimo periodo) l’efficacia dell’attività (sostanziale e processuale) degli enti legittimati a richiedere tributi o contributi con sanzioni e interessi;” l’obiettivo della norma viene individuato nella relazione illustrativa al d.lgs in quello di “evitare che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate”.

La norma opera quindi su un piano sostanziale e non “procedurale” in quanto non si risolve in una diversa regolamentazione dei termini processuali e dei tempi e delle procedure di accertamento o di riscossione.

Sulla interpretazione della circolare 31/E/2014 si sono espresse già le Commissioni di merito; giova richiamare la sentenza 5/02/2015 della CTP Reggio Emilia e la CTR Lombardia 3837/2014; entrambe si muovono nella direzione di non ritenere ammissibile la retroattività dei controlli.

E’ di intuitiva evidenza che rimangono aperte numerose questioni; le decisioni delle singole commissioni appaiano disomogenee e poco convincenti in alcuni casi. Si potrebbe anche porre un profilo di illegittimità costituzionale del decreto semplificazioni laddove viene a determinarsi una irragionevole disparità di trattamento tra gli “enti creditori” previsti dal D. Lgs. citato e tutti gli altri creditori sociali. E ancora potrà emettersi e notificarsi un avviso di accertamento ad una società estinta dopo il 13/12/2014 oppure tale avviso va considerato nullo perché nessun atto impositivo può essere legittimamente emesso nei confronti di una società cancellata? Resta da capire per quale motivo non sia stato accolta la posizione di un noto autore, secondo cui “saltare il simulacro della società estinta agevola, anziché ostacolare, l’attività del recupero del credito tributario nei confronti dei soci e dei liquidatori(link articolo). Ma tant’è; il caos continua lasciando spazio a numerose argomentazioni difensive.

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IMPOSTA SUI REDDITI FONDIARI E CONTRATTI DI LOCAZIONE AD USO COMMERCIALE RISOLTI A SEGUITO DI SFRATTO PER MOROSITA’- SENTENZA DELLA CTP MILANO 2863/1/2015

La sentenza della Commissione Provinciale di Milano affronta il tema dei redditi di locazione non percepiti in relazione ai contratti di locazione per uso commerciale.
Come è noto l’orientamento della A.F. è quello, in base all’art 26 T.U.I.R, di consentire al contribuente di non dichiarare i redditi di locazione effettivamente non percepiti solo in relazione ai contratti locazione ad uso abitativo, escludendo pertanto i contratti di locazione ad uso commerciale. L’interpretazione della Agenzia delle Entrate trova fondamento nel citato art 26 ma in realtà tale interpretazione travisa completamente la portata della norma.
Nel caso di specie il contratto era stato dichiarato risolto con una pronuncia di convalida dello sfratto e per questo motivo – ha sostenuto il contribuente – era venuto meno l’obbligo di dichiarare i canoni di locazione non percepiti anche se il fabbricato era ad uso commerciale.
Assume rilievo ai nostri fini il terzo periodo della norma di cui all’art 26 T.U.I.R. laddove il legislatore torna a parlare dei contratti di locazione in generale, senza distinguere tra quelli ad uso abitativo e quelli ad uso commerciale. La disposizione stabilisce che il provvedimento di convalida dello sfratto per morosità dà titolo al contribuente per ottenere un credito corrispondente all’imposta versata sui canoni non effettivamente percepiti e, nel caso di specie, la Commissione evidenzia come non avrebbe avuto senso dichiarare e pagare una imposta già estinta per compensazione del credito sorto in capo al contribuente per effetto della convalida di sfratto per morosità.
In definitiva, lo sfratto per morosità fa venir meno l’obbligo di dichiarare i canoni di locazione non percepiti anche se il fabbricato è a uso commerciale; ciò trova conferma nella giurisprudenza recente delle Commissioni tributarie (CTP Reggio Emilia 422/02/2014, CTP Lombardia sez. Bergamo 516/02/2014- CTP Pavia 128/01/2013).

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