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Fattura non pagata e “presunzione di incasso”

Nella pratica non è infrequente il caso in cui venga emesso un avviso di accertamento per un reddito imponibile non dichiarato costituito dall’emissione di una fattura (si deve comunque trattare di importi di una certa rilevanza).
Nella prassi il contribuente sostiene che si tratta di una fattura insoluta, mai saldata e quindi chiede l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato sulla base della considerazione che vanno sottoposti a tassazione i redditi percepiti e non quelli che non sono stati percepiti.
La giurisprudenza in realtà ritiene che tale semplice asserzione non sia sufficiente per ottenere il risultato invocato e ciò in ragione del fatto che se è vero che la fattura può essere emesse prima del pagamento e restare insoluta, il giudice comunque attribuisce al contribuente l’onere di provare il mancato pagamento.
Come può allora il contribuente assolvere tale onere? Può farlo solo attraverso la produzione di missive di sollecito di pagamento, di ricorsi per ingiunzione promossi avanti l’A.G. ovvero con la produzione di tutta la documentazione afferente a quelle attività che di regola un imprenditore od un professionista svolge per recuperare un suo credito.
Se tale onere non è assolto il giudice tributario rigetta l’impugnazione evidenziando che la fattura viene emessa al momento del pagamento della prestazione e quindi deve presumersi che la stessa è stata pagata.
Si tratta della c.d. presunzione di incasso della fattura e tale presunzione è collegata alla disciplina dell’IVA secondo cui la fattura deve essere per l’appunto emessa al momento del pagamento della prestazione. A ciò si aggiunga il fatto che una volta emessa la fattura, sorge il diritto alla detrazione dell’imposta, indipendentemente dall’avvenuto pagamento del corrispettivo (Cass.6793/2020).

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Intimazione di pagamento ex art. 50 d.p.r 602/1973 : atto autonomamente impugnabile per vizi propri e vizi dell’atto presupposto

L’intimazione di pagamento che faccia seguito ad un atto impositivo divenuto definitivo per mancata impugnazione non integra un nuovo ed autonomo atto impositivo, con la conseguenza che, in base all’art. 19 d.lgs. 546/92, essa resta sindacabile solo per vizi propri e non per questioni attinenti all’atto impositivo da cui è sorto il debito tributario.
Ne consegue che tali ultimi vizi non possono essere fatti valere con l’impugnazione dell’intimazione di pagamento, salvo che il contribuente dimostri di essere venuto per la prima volta a conoscenza della pretesa impositiva solo con la notificazione dell’intimazione suddetta. (Cass. Civ. sez V 3005/20).
Interessante è il caso frequente nella prassi in cui il contribuente proceda ad impugnare una intimazione di pagamento emessa dall’ente riscossore eccependo la mancata notifica dell’atto presupposto.
In questo caso, il contribuente può agire indifferentemente sia nei confronti dell’ente impositore che dell’agente della riscossione, senza che nel caso in questione sia configurabile alcun litisconsorzio necessario, costituendo l’omessa notifica dell’atto presupposto un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto successivo ed essendo rimessa all’agente della riscossione la facoltà di chiamare in giudizio l’ente impositore (Cass.civ. sez. V 5061/22).

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Impugnabilità del rigetto della domanda della cd Voluntary disclosure

La possibilità di una riproposizione di misure di sanatoria simili a quelle varate tra il 2015 e il 2017 (cosidette voluntary disclosure) non appare esclusa dal nostro legislatore, anche se tale possibilità sembra al momento accantonata.
Per questo motivo è interessante la sentenza n. 5174 del 2023 della Suprema Corte sez. V che affronta il tema dell’impugnabilità della comunicazione di diniego di accesso alla procedura di collaborazione volontaria di cui all’art. 1 primo e secondo comma L. 186/2014. La sentenza accoglie il ricorso del contribuente che si era visto respingere, per l’appunto, l’istanza di accesso alla procedura in questione.
Prima di affrontare i motivi per i quali il ricorso è stato accolto si impongono alcune brevi considerazioni sulla natura dell’istituto.
La collaborazione Volontaria , introdotta con la legge n. 186/2014, è una procedura con cui il contribuente autodenunciandosi dichiara al fisco “attività finanziarie e patrimoniale costituite o detenute fuori dal territorio dello Stato” non indicate nella dichiarazione – art 5 quater /1 lett. a) – cd nero transfrontaliero ovvero redditi occultati in Italia (art, 1/1-3-4 legge cit – cd nero domestico).
Gli effetti della corretta presentazione dell’autodenuncia sono molteplici ma i più importanti possono essere così riassunti: a) regolarizzazione della propria situazione patrimoniale e reddituale b) corresponsione integrale delle imposte e degli interessi relativi ai redditi non dichiarati ; c) riduzione delle sanzioni amministrative applicabili; d) non punibilità dei reati : d1) di omessa o infedele dichiarazione, di dichiarazione fraudolenta con fatture false o altri artifici, di omesso versamento di ritenute certificate, di omesso versamento Iva ; d2) di cui agli artt. 648 bis , 648 ter, 648 ter 1 c.p.
La procedura di Collaborazione volontaria ha quindi come effetto principale quello di fare emergere il reddito occultato su cui il contribuente deve pagare le imposte e gli interessi che avrebbe dovuto pagare oltre le sanzioni in misura ridotta. Va tuttavia ricordato che la collaborazione non è ammessa se la richiesta è presentata dopo che l’autore della violazione degli obblighi di dichiarazione abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni ,verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali per violazione di norme tributarie.
Venendo ai motivi che hanno determinato l’accoglimento del ricorso del contribuente, la Corte ha concluso che l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del D.lvo n. 546/1992 ha si natura tassativa, ma ciò non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l’amministrazione finanziaria porti a conoscenza una ben individuata pretesa tributaria (ad esempio è stata riconosciuta la legittimità ad impugnare il diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disapplicazione delle norme antielusive oppure ancora è stata ritenuta immediatamente impugnabile anche la comunicazione d’irregolarità ex art. 36 bis comma 3 DPR 600/1973 cd avviso bonario), Nel caso di specie il rigetto della domanda di Collaborazione volontaria viene dalla Corte equiparata al rigetto di domanda di definizione agevolata dei rapporti tributari e per questo motivo viene considerato come atto impugnabile.

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Richiesta di patteggiamento ed emissione di fatture false

La Terza Sezione Penale con sentenza n. 962/2022 del 27 maggio 2022 in tema di reati tributari ha affermato che la preclusione al patteggiamento posta dall’art. 13 bis comma 2 D.lgs n. 74/2000 per il caso di mancato estinzione del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento opera anche con riferimento all’art. 8 del decreto citato ove sussista il debito tributario ex art. 21 comma 7 DPR 633/1973 (rubricato “fatturazioni delle operazioni”).
La vicenda esaminata dalla Suprema Corte ha tratto origine dal ricorso in cassazione proposto dal P.G. presso la Corte di appello di Perugia avverso una sentenza di applicazione pena ex art. 444 c.p.p. pronunciata dal G.I.P. del Tribunale di Perugia il 26 maggio 2021 con la quale il prevenuto era stato condannato alla pena di mesi otto di reclusione per il reato di emissione di fatture false relative per l’appunto ad operazioni soggettivamente inesistenti.
La Procura Generale di Perugia ha dedotto la violazione dell’art. 13 bis D.lgs n. 74/2000 e ciò in ragione del fatto che il Primo Giudice avrebbe errato nell’accogliere la richiesta di patteggiamento non essendo stata soddisfatta la condizione prevista dall’art. 13-bis comma 2 D.lgs n. 74 del 200 ossia l’estinzione del debito tributario con il pagamento delle sanzioni amministrative e degli interessi, che rappresenterebbe la condizione di ammissibilità del rito.
Sul punto occorre rammentare che il pagamento in questione può avvenire anche a seguito di procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie (l’istituto della cd. “acquiescenza” ovvero l’accertamento con adesione).
La Corte ha fatto proprie le considerazioni del P.G. e quindi annullato la sentenza impugnata rilevando che l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti genera sempre il debito tributario perché l’art. 21 comma 7 del D.P.R. 633 del 1972 prevede che << se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti ovvero indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alla indicazioni della fattura>>.
Ne consegue che per poter accedere al patteggiamento è necessario il pagamento integrale dei debiti tributari, (compresi sanzioni ed interessi) prima dell’apertura del dibattimento.
In definitiva, la preclusione al patteggiamento posta dall’art. 13 bis comma 2 del D.lgs n. 74 del 200 per il caso di mancato pagamento del debito tributario opera anche per l’art 8 del decreto anche se tale articolo non è richiamato espressamente dall’art 13 cit. , che invece richiama espressamente i più gravi reati dichiarativi di cui agli artt. 2,3,4 e 5. Per completezza la sentenza in questione richiama la giurisprudenza in tema di reati tributari e ciò con riguardo al fatto che il pagamento del debito tributario per accedere al patteggiamento deve comunque avvenire prima della formale conoscenza da parte dell’autore del reato di accessi, ispezioni, verifiche o dall’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti. Se il pagamento del debito in questione avviene dopo la conoscenza dell’esistenza di un procedimento amministrativo o penale , detta circostanza potrà essere considerata solo come una attenuante che inciderà quindi sulla pena che in concreto verrà comminata.

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Accertamento analitico-induttivo e accertamento induttivo : brevi considerazioni

L’accertamento di tipo analitico-induttivo è quello che origina dall’analisi dei costi sostenuti ed esposti in contabilità dell’impresa per giungere a ritenere insufficienti i ricavi dichiarati; la norma di riferimento è quella di cui all’art. 39 comma 1 lett. d) del D.P.R. 600/1973. Quindi in caso di accertamento di tipo analitico-induttivo si è in presenza di scritture regolarmente tenute che però possono essere contestate sotto il profilo della veridicità in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano, per l’appunto, dubitare della completezza e della fedeltà della contabilità esaminata.
In questo contesto si colloca l’antieconomicità del comportamento del contribuente, il quale deve dimostrare la regolarità delle operazioni da lui compiute a fronte della contestazione dell’antieconomicità. Nella prassi avanti le commissioni tributarie la difesa del contribuente di regola contesta la legittimità del ricorso dell’Ufficio all’accertamento induttivo sostenendo che si deve dimostrare l’infedeltà del comportamento del contribuente.
Diverso è il caso dell’accertamento induttivo “puro”; ad esempio in assenza di presentazione della dichiarazione IVA e del modello unico per l’anno di imposta.
In questo caso l’Ufficio procede all’accertamento induttivo e l’unico limite è costituito dal principio (Corte Cost. n.225/2005) ormai acquisito secondo cui, in presenza di accertamento induttivo, l’Amministrazione Finanziaria deve ricostruire il reddito del contribuente tenendo conto delle componenti negative emerse dagli accertamenti eventualmente compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente al fine di evitare che -in contrasto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.- venga sottoposto a tassazione il profitto lordo anziché quello netto. In definitiva, in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39 comma 2 D.P.R. 600/1973 l’Amministrazione Finanziaria deve considerare una detrazione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione.

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Responsabilità dell’ente ex D.lgs. n. 231/2001 e cancellazione della società

Con la sentenza n.9006/2022 la sezione IV della Suprema Corte si è pronunciata sulle conseguenze della cancellazione dal registro delle imprese in tema di responsabilità degli enti ex D.lgs. n. 231/2001. Il caso riguardava un infortunio sul lavoro nel quale il giudice penale era pervenuto all’affermazione della penale responsabilità per lesioni colpose degli amministratori nonché a quella della responsabilità amministrativa dell’ente per essere stato il reato commesso da soggetto con qualifica di amministratore ed a vantaggio dell’ente.
La difesa dell’ente, richiamando un precedente di legittimità (Sez. 2 n. 41082/2019), chiedeva il proscioglimento dell’ente associandosi alla richiesta del P.G. e ciò in considerazione del fatto che, nelle more del giudizio, la società era stata cancellata dal registro delle imprese, cancellazione che, secondo la prospettazione in questione, sarebbe da assimilare alla morte della persone fisica.
La sentenza della Corte si muove invece in senso diametralmente opposto rispetto all’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato ed ha infatti affermato il seguente principio di diritto: << la cancellazione dal registro delle imprese della società alla quale si contesti (nel processo penale che si celebra anche nei confronti di persone fisiche imputate di lesioni colpose con violazione della disciplina antinfortunistica) la violazione dell'art. 25 -septies comma 3 del d.lgs. n. 231/2001 in relazione al reato di cui all'art. 590 c.p. che si assume commesso nell'interesse ed a vantaggio dell'ente, non determina l'estinzione dell'illecito ad essa addebitato>>.
La pronuncia in questione è interessante perché richiama la normativa civilistica in tema di cancellazione della società e la giurisprudenza intervenuta in materia pervenendo così alla conclusione che la cancellazione della società non può in alcun modo costituire un problema di accertamento della responsabilità dell’ente per fatti anteriori alla sua cancellazione, responsabilità che nessuna norma autorizza a ritenere destinata a scomparire per effetto della cancellazione dell’ente stesso.

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Gaetano Azzariti: un vero e proprio campione di trasformismo

In occasione del Giorno della Memoria mi sono imbattuto nella storia di Gaetano Azzariti, un giurista del regime fascista, Presidente del Tribunale della Razza che ricoprì poi nell’Italia repubblicana la carica di magistrato della Corte Costituzionale nel 1955 ed infine fu eletto  Presidente della Corte nel 1957. Il caso di Azzariti è  davvero un caso eclatante; c’è da dire che  furono comunque numerosi i magistrati che prima, convinti fascisti, continuarono la loro  carriera nella Repubblica.  Occorre ricordare che quando nel 1939 il ministro della giustizia Arrigo Solmi chiese a tutti i magistrati una dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica al fine di verificare la << la purezza razziale dell’intero apparato;   nessuno dei 4200 magistrati allora in servizio manifestò solidarietà nei confronti dei 18 colleghi che furono dispensati dal servizio.
La vicenda di Gaetano Azzariti è insomma l’ennesimo esempio di come in Italia non si è riusciti a liquidare il proprio passato  ed a fare i conti con il fascismo ; come è stato sottolineato in più occasioni l’Italia non ha mai avuto una “Norimberga “e si è preferito comodamente  far ricadere tutte le responsabilità dei crimini commessi nel ventennio  sulla RSI e sull’alleato tedesco. Gli uomini di potere del fascismo  sono  così rimasti al loro posto o comunque si sono reintegrati in posti di responsabilità e ciò è stato reso possibile anche dall’amnistia “Togliatti” del 1946 che, ispirata ad una esigenza di riconciliazione nazionale, si è trasformata di fatto in un perdono per così dire generalizzato. A riprova di quanto detto  Azzariti, un vero e proprio campione di trasformismo,  ricoprì , tanto per non farsi mancare nulla, anche la carica di ministro di Grazia e Giustizia nel governo Badoglio.

Per  chi volesse approfondire la storia di Gaetano Azzariti e la persecuzione ebraica in Italia suggerisco la lettura di un libro molto interessante di Massimiliano Boni intitolato “In questi tempi di fervore e gloria” (Bollati e Boringhieri).  Navigando su internet  chi è interessato avrà modo anche  di leggere una difesa della figura di Azzariti, difesa svolta  da suo nipote il Prof. Gaetano Azzariti dell’Università di Roma “La Sapienza”. A tali  argomentazioni “difensive”  ha risposto in modo caustico il noto giornalista Gian Antonio Stella.

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La figura dell’avvocato e la sua percezione nell’opinione pubblica

La Corte Costituzionale con una recentissima sentenza ( la sentenza n.18 del 24 gennaio 2022) ha stabilito  l’illegittimità costituzionale dell’art. 41 bis della Legge n. 354/74 ( la legge sull’ordinamento penitenziario) nella parte in cui era previsto il visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al regime carcerario “duro” e il proprio difensore.

Ora in questa sede non  intendo commentare la sentenza in questione, peraltro pienamente condivisibile.  Voglio solo sottolineare come la vicenda in questione ci consente di fare una breve riflessione su come viene percepita la figura dell’avvocato nel nostro Paese.

E’ uscito infatti il 25 gennaio u.s. un articolo su “Il Fatto quotidiano” dal titolo ” La Consulta cancella la censura sulla corrispondenza tra i detenuti al 41-bis e avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera “ a firma della giornalista Antonella Mascali. L’articolo  ha suscitato la pronta e sdegnata  reazione  del Consiglio Nazionale Forense del 26 gennaio; il CNF  ha sottolineato con forza che “è inaccettabile il messaggio distorto che si evince dal titolo citato che ammanta di supposta illiceità la figura dell’avvocato, ingenerando l dubbio che il difensore, anche solo potenzialmente possa essere la longa manus del proprio assistito”. 

Certo non costituisce una novità il fatto che l’avvocato è stato spesso  rappresentato come un azzeccagarbugli di manzoniana memoria oppure come un amico dei disonesti; forse ciò dipende dal fatto che quando si parla di giustizia le idee non sono chiare . Basti pensare che si continua ancora oggi a fare una grande confusione continuando a chiamare, ad esempio,  giudici i P.M.  I. P.M. non sono giudici ! E ancora sul ruolo dell’avvocato e dei pubblici ministeri; è’ ovvio che gli stessi svolgono una funzione diversa. La parte pubblica è tenuta ad inserire nel processo anche gli elementi a favore dell’imputato ; l’avvocato difensore, parte privata,  è invece obbligato a far entrare nel processo solo gli  elementi favorevoli.  Se l’avvocato violasse tale dovere commetterebbe, quantomeno,    un illecito deontologico. Come ha sottolineato il Presidente dell’Unione delle Camere Penali , l’avv. Gian Domenico Caiazza in una recente intervista “in questi anni abbiamo assistito ad una costante e crescente messa in discussione del ruolo dell’avvocato, il cui libero e pieno esercizio del del diritto di difesa del proprio assistito viene prevalentemente interpretato come un intralcio alla giustizia e ciò è la conseguenza dell’alterazione che è avvenuta nella dinamica del processo penale che ha spostato il baricentro dal giudizio alle indagini. Se si attribuisce all’investigazione , all’ipotesi accusatoria un peso quasi conclusivo nella valutazione penale del fatto, tutto ciò che mette in discussione l’ipotesi accusatoria viene considerata come un ostacolo all’affermazione della giustizia”.

 

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I RAPPORTI TRA PROCESSO PENALE E PROCESSO TRIBUTARIO

Fino al 1982 i rapporti tra processo penale e procedimento tributario erano disciplinati  dall’art. 21 comma 4 della Legge n. 4/1929 che – in un quadro normativo caratterizzato dalla configurazione dei reati tributari come fattispecie di danno- subordinava l’esercizio dell’azione penale alla definitività dell’accertamento tributario e vincolava il giudice penale all’esito di tale accertamento. Con il decreto legge n. 516/1982 ( la cd . legge “manette agli evasori”) l’assetto normativo conobbe un radicale mutamento che – in un quadro un cui la tutela penale era anticipata a condotte propedeutiche all’evasione fiscale- escludeva la sospendibilità del processo tributario per la pendenza di quello penale, ma attribuiva alla sentenza penale irrevocabilità di autorità di cosa giudicata nel diritto tributario; assetto, questo che fu ritenuto conforme a Costituzione dalla sentenza n. 349 del 1987 della Corte Costituzionale.

Con il d.lgs. n. 74/2000 si è ripreso una tecnica di costruzione della fattispecie incriminatrice incentrata sull’evasione e ciò si è accompagnato ad una sostanziale conferma dell’assetto dei rapporti tra processo penale e processo tributario. L’art. 20 del d. lgs n, 74 del 2000 esclude la sospendibilità del processo tributario per la pendenza del procedimento amministrativo relativo ai medesimi fatti, mentre l’autonomia del processo penale rispetto a quello tributario discende dagli artt. 3 e 479 c.p.p.

In questo contesto normativo , la giurisprudenza di legittimità ha precisato che le sentenze pronunciate dal giudice tributario , se non definitive, non hanno efficacia vincolante nel giudizio penale, laddove, divenute irrevocabili, sono acquisibili  agli atti del dibattimento e valutabili  ai fini della decisone a norma dell’art. 238 -bis c.p.p. ; anche le sentenze tributarie definitive dunque non vincolano il giudice penale in quanto l’art. 238-bis c.p.p. consente l’acquisizione in dibattimento delle sentenze divenute irrevocabili, disponendo che esse siano valutate a norma dell’art, 187 e 192 comma 3 c.p.p. ai fini della prova del fatto in esse accertato, sicché spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa in base ad una verifica che può venire a sovrapporsi e anche entrare in contraddizione con quella  eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria

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Strage di Viareggio: imputati prescritti ma responsabili

Nel mese di settembre la IV Sezione Penale della Cassazione ha depositato la motivazione della sentenza del processo sulla strage di Viareggio che costò la vita a 32 persone nel giugno 2009. Nel gennaio u.s.  è stato depositato il dispositivo della sentenza che ha escluso l’aggravante relativa alla violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e ciò ha comportato che il reato di omicidio colposo contestato agli imputati è stato dichiarato prescritto. Più precisamente la Corte ha affermato che, ai fini della integrazione della circostanza aggravante del “fatto commesso con violazione della norma per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” di cui all’art. 589 secondo comma e 590 terzo comma c.p. ,occorre la violazione di una regola cautelare volta ad eliminare o ridurre lo specifico rischio derivante dalla svolgimento di attività lavorativa, di morte o lesione ai danni dei lavoratori o di terzi esposti alla medesima situazione di rischio e  pertanto assimilabili ai lavoratori che l’evento sia una concretizzazione di tale rischio che la regola cautelare violata era volta ad eliminare , non essendo all’uopo sufficiente che l’evento si verifichi in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa. (In applicazione di tale principio la Corte ha escluso la configurabilità della circostanza aggravante in questione ai reati di omicidio colposo ascritti, quali datori di lavoro, ad esponenti di Trenitalia s.p.a. e di Ferrovie dello Stato s.p.a. per le morti di soggetti estranei all’organizzazione d’impresa,  causate dall’incendio derivato dal deragliamento e successivo ribaltamento di terni merci trasportante GPL , durante l’attraversamento della stazione di Viareggio, determinato dal cedimento di un assile dovuto al suo stato di corrosione, ritenendo le vittime non esposte al rischio “lavorativo” bensì a quello attinente alla sicurezza della circolazione ferroviaria. (cfr sito della Corte di Cassazione Cass. Pen . sez. IV n. 32899/20). In definitiva la Corte è pervenuta alla conclusione che una circostanza  che rendeva il fatto più grave non c’era.

Tenuto conto della risonanza e del clamore  che tale decisione avrebbe potuto provocare (ed stato poi così nella realtà dei fatti)  la Cassazione ha tenuto a precisare che gli imputati sono stati prescritti ma comunque ritenuti colpevoli. Di seguito  il  comunicato stampa in questione : << La decisione assunta dalla Corte ha confermato i primo luogo l’esistenza del reato di omicidio colposo plurimo. Tale reato, con l’eccezione dell’imputato che aveva rinunciato alla prescrizione, è stato dichiarato prescritto in quanto esclusa la circostanza aggravante della violazione delle norme di prevenzione sui luoghi di lavoro. A questa decisione ha fatto seguito la conferma dei risarcimenti in favore di molte parti civili e la revoca degli stesso in favore di alcune altre. La decisione ha confermato per numerosi imputati la responsabilità per il reato di disastro ambientale ferroviario colposo, così confermando la condanna inflitta dalla Corte d’appello di Firenze che è stata dichiarata definitiva. Per altri imputati ha annullato la sentenza in relazione ad alcuni profili di colpa ed ha rinviato per un nuovo giudizio alla Corte d’appello>>.  In definitiva, in altre parole si può affermare che nel caso in questione  la prescrizione ha  “coperto” la condanna nel senso che gli imputati sono andati esenti da pena ma non da responsabilità.

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